I Giganti della Montagna, appunti per uno studio

“Forse le cose devono restare incompiute. Allora poi sono bellissime”. Andrea Camilleri – una riflessione attorno a I giganti della montagna, il nostro studio.

[da appunti del 2018]

Pirandello come è noto scrisse I giganti a più riprese, abbandonandone la stesura e riprendendola più volte, sino a lasciarla incompiuta a quel Secondo atto che è una vertigine di senso, nella chiusa evocativa e densa di rimandi e nel possibile compimento, affidato al racconto del figlio Stefano, la notte prima di morire.
Come nelle parole di Andrea Camilleri – che sempre torniamo a leggere per la valenza oltre che storiografica soprattutto emotiva, di accesso al testo – forse le cose devono restare incompiute, allora poi sono bellissime.

E’ difficile misurarsi con un’opera come I giganti, perchè rientra a pieno titolo tra gli intoccabili : è un po’ come approcciare La Tempesta, le opere testamentarie sembrano custodire sempre in sé un segreto, un nucleo inaccessibile, che si può forse arrivare a sfiorare solo con tanta, tanta esperienza. Di studi, di vita, di scena.

Eppure Pirandello si può studiare. Si deve poter studiare. Soprattutto adesso. E si deve poterlo fare soprattutto con un gruppo di interpreti appassionati di teatro.

E perchè forse (forse) è vero che dentro i Giganti sembra affiorare il Pirandello più autentico. Di là dai rimandi autobiografici, dalla patina dietro la quale sembra affiorare la delusione verso la scena così come il pubblico la vede e la vuole, la genesi incompresa (o forse sin troppo compresa) di quella Favola del figlio cambiato i cui versi tornano a vivere nel testo, i rapporti con le istituzioni ed il fascismo… I giganti mi è apparso in questo terzo studio in prima istanza una riflessione vertiginosa e verticale sul teatro, sul suo senso ultimo, legata a doppio filo al senso che il teatro aveva per Pirandello al termine della sua vita.

Ci sono battute nel testo che aprono a punti di domanda continui, l’attore è tramite, depositario del dono e del talento di porsi alle soglie della realtà leggibile, attori e scalognati appartengono in questo alla stessa famiglia, di notte e sulla scena prendono forma i fantasmi come possibilità di uscir fuori da sé per lasciar spazio ad altro, a quell’altrove che sulla scena si fa presenza.

Nella stanza delle apparizioni al principio del II atto, mentre Cotrone e gli scalognati leggono di notte la Favola, per industriarsi ad una messa in scena, gli attori nel sonno lasciano spazio ai loro personaggi, Allegri, allegri dice rientrando Cromo dopo aver visto il suo corpo che placidamente dorme insieme agli altri nel suo letto, stiamo sognando. Sembra quasi di sentire quell’allegri allegri con cui il brillante anticipava il suo ingresso ancor prima di entrare in scena, già dalla quinta. Allegri, allegri. Non siamo noi. I nostri corpi dormono. Qui è la scena, la stanza delle apparizioni, l’altrove che prende corpo.

Pirandello è ancora modernissimo. Come lo era stato nei Sei personaggi, anticipando e raccontando un modo possibile per il teatro italiano di riscattarsi da quel trentennio di anomalia e ritardo sulla regia europea, dimostrando che non era necessario mettersi al passo delle innovazioni con chissà quali nuovi artifici di scena, che sarebbe stato proprio nella povertà dei mezzi che il teatro italiano avrebbe potuto trovare una risorsa.

Nei Sei personaggi disegna sul corpo del teatro italiano – con i suoi salottini rossi, pronti per ogni occasione – quella rivoluzione di pensiero che sarebbe stata la regia teatrale. E lo fa con niente. Con niente. (Poi all’estero avrebbe detto Luigi Almirante, il Padre in quella prima edizione del ’21, Pirandello lo hanno travisato, invece io il Padre lo feci proprio così, con la giacca che misi quando morì il mio povero babbo).

C’è tanto. Tanto. Ogni volta. Un eccesso di senso. C’è la chiusa, l’ulivo saraceno, i rami che tornano alla terra. C’è il telo da tirare sulla piazza. Ci sono le ultime parole al figlio. C’è, un ulivo saraceno, con cui ho risolto tutto. Restano ancora domande aperte, perchè se di fronte alla grettezza e all’ignoranza dei Giganti le parole degli attori non possono che essere sbranate, fatte a pezzi, è anche il teatro che non riesce a parlare agli uomini del suo tempo.

 

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