Himmelweg di Juan Mayorga

Scrissi quello che vidi, e non dissi che era un paradiso.

Rassegna di Giugno, Teatro Quarticciolo – Roma

Abbiamo incontrato il teatro di Mayorga (Juan Antonio Mayorga Ruano) nell’ambito della nostra ricerca su testi che potessero contenere elementi metateatrali.  La “rassegna di giugno” difatti e cioè il ciclo di saggi/spettacolo che ci impegnano nella seconda parte dell’anno è stata interamente dedicata al teatro. Un omaggio a quel teatro che ci è cosi mancato in questi due anni, un atto d’amore.


Mayorga (Madrid, 1965) drammaturgo spagnolo e anche filosofo, matematico e traduttore si è reso noto in Italia per aver vinto nel 2007   il premio Ubu nella categoria Nuovo testo straniero con Hamelin. Già noto e pluripremiato in patria  Mayorga è un autore fecondo, potente, che vede e interpreta il teatro come possibilità di leggere la realtà mettendo al centro del processo creativo anche lo spettatore: Il teatro – scrive – accade nel pubblico. Non nei ruoli ideati dall’autore. Nemmeno nella scena che occupano gli interpreti. Il teatro accade nell’immaginazione, nella memoria, nell’esperienza dello spettatore”. Un teatro il suo che pone spesso tematiche scomode, non facili, scevre del tutto dalla retorica, trattate in modo asciutto, tese a svelare non tanto la realtà dei fatti, quanto una visione che è compito dello spettatore ricomporre.

 

In questa direzione si muove Himmelweg  (2004) che a partire da un fatto realmente accaduto – la visita di una Delegazione della Croce Rossa  nella città ghetto di Terezin, in piena Shoah, in cui venne mostrata dai nazisti una realtà teatralizzata e del tutto artefatta per occultare lo sterminio in atto – apre a suggestioni e riflessioni che pur senza slegarsi da quei drammatici fatti impongono una presa di posizione anche all’uomo di oggi, al suo – al nostro – presente. Cosa scegliamo di vedere, quanto siamo realmente liberi nel discernere manipolazione e realtà, quanto affrancati dai nostri stessi pregiudizi. C‘è poi ancora in Himmelweg il sottile gioco psicologico tra i 2 protagonisti : Gottfried, il Prigioniero, costretto a assecondare il disegno machiavellico e crudele imposto dai nazisti e il Comandante che di quel disegno si fa fautore e regista in un delirio via via crescente e assai spesso egoriferito, pasticciato e feroce nella forma e nella sostanza.

E poi il teatro. Contenitore macroscopico, teatro nel teatro. E quale teatro? Teatro artefatto della recita costruita per gli occhi del Delegato o teatro quale possibilità di ricomposizione dello sguardo?  Teatro impossibilitato a celare la sua inconsistenza (lei conosce la melanconia dell’attore? domanda il comandante a Gottfried – quando un attore sulla scena sta piantando un chiodo, sta piantando un chiodo e al tempo stesso sa che non sta facendo nulla), o teatro che può aprire squarci di visione e verità allo sguardo di chi osserva (che sciocca quella bambina proprio in ultimo si è messa a urlare scappa Rebecca scappa che arriva il tedesco). Un grido che il Delegato – spettatore inconsapevole – sceglie di non sentire, di non vedere. E a cui  Mayorga – a noi è parso – sembra restituire la sua poetica teatrale, il suo senso. Il teatro accade nella mente, nell’esperienza dello spettatore, ed è luogo politico, verticale, in grado di ampliare il nostro sguardo sul passato e sul presente.

 

 

 

 

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