Purtroppo, negli spazi grigi della nostra interiorità ci sono soltanto macerie, che stanno sotto altre macerie, che stanno sotto altre macerie. Ma forse una volta c’era un tempio
Tratto dal romanzo “Il solitario” di Eugene Ionesco, “Che inenarrabile casino” è una pièce che ne ripercorre il plot, la trama e i personaggi, trasferendoli sulla griglia di una “drammaturgia per il teatro” che lascia spesso intravedere la sua natura spuria: un romanzo scritto per essere letto, con ruoli e caratteri ben delineati depositati sulla scena, a prendere vita quasi per caso, pagine tracimate dalla lettura, compiute per la narrazione e sin troppo definite per la scena. I monologhi (lunghissimi) e le didascalie precise, quasi maniacali, di oggetti, scene, azioni: una drammaturgia teatrale in cui la penna (e l’anima) dell’autore sono lì a ricordarci natura e intenti. Un romanzo, e una scrittura prestati alla scena. Affinché i suoi personaggi potessero tracimare i bordi della carta e vivere.
Così si presenta alla lettura “Che inenarrabile casino”: un testo e un titolo anticipatorio di risultati e contenuti, e viene in mente Ionesco, quell’iconografia che lo racconta e rappresenta, le citazioni tratte a caso dalle sue pagine, dove impera e in ogni dove quel sentimento ben preciso di cosa sia la vita, e la morte, soprattutto, di come non sia altro che una lunga attesa, questa nostra vita, di un epilogo obbligato, quel sentimento di morte, ossessione e malattia, natura e certezza del nostro essere umani, impastoiati fino all’ultimo in un Inenarrabile casino.