di Michail Bulgakov
Il testo debutta nel 1928 al Teatro da Camera di Mosca, ed immediatamente ritirato perchè non in linea con la propaganda stalinista, soffre le maglie di quella censura che lo stesso Bukgakov aveva tratteggiato nell’irridente ritratto di una compagnia in prova, costretta a mettere in piedi in fretta e furia un allestimento da mostrare ad un unico spettatore: il censore.
Ancora un testo metateatrale, che non ha visto moltissimi allestimenti sinora in Italia (fatta salva negli ultimi anni la messa in scena di Marco Lucchesi con Nello Mascia nel ruolo di Dimogacki, e adattamento del drammaturgo Manlio Santanelli, e quella a cura del Piccolo Teatro di Milano nel 1968 con la regia di Maiello) , con cui abbiamo scelto di misurarci pur nella difficoltà di un testo esilarante e al contempo particolarmente complesso sotto il profilo dell’allestimento.
Cinque atti di pura comicità sotto cui scorre la penna sapiente di Bulgakov, intrisa di riferimenti non troppo velati alla censura del tempo, che costarono al drammaturgo russo non solo una accorata lettera di scuse a Stalin, ma a quanto sembra, una battuta d’arresto alla sua carriera e non poche conseguenze nei rapporti già non facili con il regime.
Un operazione di teatro nel teatro che ritrae una compagnia dell’epoca – afflitta dalle medesime “cattive” abitudini di gran parte del teatro europeo di inizio 900 ( ed oltre) e dunque con il suo corollario di primattori e prime attrici, prove talvolta arraffazzonate alla bella e meglio con il vestiario teatrale a disposizione e “scene buone per ogni occasione” (parrebbe quasi che il sipario si apra sulla quella compagnia del teatro all’antica italiana che Pirandello ritrasse tanto magistralmente ne I Sei personaggi), suggeritori, parti e ruoli, e tutto quanto afflisse la scena sino alla grande Rivoluzione teatrale che fu il Teatro di regia, in questi anni in realtà già in essere in particolare in Russia.
Così il prologo. Con l’aggravante che qui un censore sta per bussare alla porta del teatro, per assistere alla commedia da farsi e dare il suo benestare al debutto. Si inizia, si prova, e l’azione si sposta in una Isola Purpurea governata da un sovrano (Sizi) di lì a poco rovesciato con rimandi – forse anche qui non troppo velati – allo zarismo. E così per 3 atti: tra indigeni e europei e una drammaturgia che porta continuamente in primo piano l’interesse collettivo e piccoli e meschini giochi di palazzo, sino all’arrivo – nel quarto atto dell’atteso Savva Lukic, il censore appunto, che dapprima assiste entusiasta alla prova degli attori per poi stroncarla con l’accetta del suo no. La commedia non si farà, salvo modifiche in corso d’opera.
Che gli attori e in particolare il drammaturgo mettono in atto prontamente. Un amaro lieto fine, la commedia si farà – ma non in provincia – con qualche accorgimento caro al regime. Un pamphlet comico e grottesco che rivela sotto traccia quanto di ben più drammatico era per l’intellighenzia russa, in quegli anni di criminale stalinismo, misurarsi con la libertà di espressione. E più in generale con la libertà. Che di lì a poco avrebbe portato alla scomparsa, di una intera generazione di uomini e donne di teatro. E come non tornare a Mejerchol’d. A sua moglie Zinaida Reich. Attrice. A quel destino che scrisse una delle pagine più inquietanti e che mai avremmo voluto leggere della storia del teatro del 900.