(siamo in troppi su questa cazzo di barca)
di Matéi Visniec
Dei clandestini se ne occuperà il mare.
Digli così FehedMigranti
Ancora un testo di teatro modulare, quadri che come frammenti di uno specchio il regista e gli attori possono comporre liberamente secondo il loro personale sguardo.
Un tema scomodo, scivoloso e feroce, che Visniec affronta senza sconti, attraversando codici espressivi che vanno dal tragico al grottesco in una direzione dissacrante che restituisce appieno in tutta la sua crudezza l’immane catastrofe umanitaria a cui assistiamo, purtroppo ancora, in una quotidiana e parziale indifferenza.
In un mondo globalizzato siamo tutti migranti – fa dire Visniec ad uno dei personaggi del testo, il Coach, che si sforza di correggere il discorso del Politico ed edulcorarlo: la parola migrante è da preferirsi alla parola immigrato, aggiunge con sarcasmo, il migrante è libero, libero di muoversi e di spostarsi. Uomini fluidi in un mondo fluido, che molto somigliano in realtà agli Uomini pattumiera del Teatro Decomposto: uomini a cui si può chiedere di vendere un rene, privarsi di un occhio, perché è Dio che ci ha fatti così – dice l’untuoso trafficante di organi a un povero cristo disposto suo malgrado a tutto pur di raggiungere le coste dell’Occidente libero e democratico – con due occhi, due reni, due mani e due gambe, proprio perché potessimo avere un Capitale da vendere. E via così di quadro in quadro, passando per l’Inferno di Calais, per la macchina rilevatrice dei battiti cardiaci in grado di scoprire i clandestini stipati dentro i camion alle frontiere, per i barconi in cui un’umanità disperata anela ad una vita lontano dalla propria terra. Con ferocia e spesso altrettanto efficace souplesse Visniec ci scaraventa addosso un ritratto straziante per la sua disumanità: nulla è inventato – la macchina dei battiti per fare un esempio esiste realmente – senza alcuna retorica e senza sconti.